Salve a tutti.
I mesi sono volati e siamo arrivati alla fine di questa seconda tappa del Concorso letterario per racconti brevi: In Mille Parole.
Senza dilungarmi troppo vi lascio il nome dei tre vincitori, il racconto che ha vinto e anche quello che ho apprezzato di più.
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Tema del mese
L'ultima notte della mia vita
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Classifica
1. Adelaide J. Pellitteri
2. Alessandro Gnani
3. Massimiliano Agarico
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RACCONTO
Vincenzo Di Fazio …
Racconto di Adelaide J. Pellitteri
Arrivo con armi e bagagli, qui non mi mancherà nulla, così come niente mancò mai a mio nonno.
Da quassù, il paese sembra sia a un tiro di schioppo, ma è alla giusta distanza. Finirà che mi chiameranno l’eremita. Mio nonno lo chiamavano così.
Lui qui c’è nato e c’è anche morto.
Non volle mai scendere in paese e nemmeno in città, neppure per venire a vedere come era rinata Palermo distrutta dai bombardamenti.
“In questo fortino - mi raccontava mio padre – il nonno ha accolto e sfamato partigiani e sfollati durante la guerra”. Poi concludeva “In paese dovrebbero fargli una statua d’oro”; mentre mia madre lo prendeva in giro dicendo “non si allontanava mai da lì per non lasciare incustodito il tesoro”, e io giù a ridere con lei. Alludeva alla Cascina che non era certo una baita, e che nonno non dotò mai di alcun confort.
Ero stato io a battezzarla “il fortino” negli anni in cui lì ci giocavo agli indiani. E fortino era rimasto il suo nome per sempre.
Sono il nipote di un eroe e, quanto prima, mi sono ripromesso di andare a parlare con il sindaco per provare a sondare il terreno circa la possibilità di far dedicare a mio nonno almeno una strada. Magari il corso principale che porta ancora il nome dei Principi Trupìa. Blasonati di scarsa nobiltà.
Quale motivazione migliore per dedicare quel corso a mio nonno se non l’aiuto dato a tanti compaesani? Che senso ha mantenere il nome di un casato che invece ha imposto per secoli la sua signoria sfruttatrice?
Ho mille progetti e domani arriverà l’architetto con la squadra per far diventare questo tugurio il mio rifugio di montagna. Sono stanco della città, dei suoi vizi, la sua anima è irrecuperabile, voglio allontanarmene definitivamente. Adesso che, grazie a cinque anni di scivolo, sono in pensione posso ritirarmi in questo pezzo di paradiso. Almeno è questo che conto di farlo diventare.
Ringrazio mio padre che ha tenuto in piedi questa baracca con un minimo di decenza, così, accomodati i bagagli comincio la mia perlustrazione.
La possibilità di poter finire i miei giorni dove ha vissuto mio nonno mi inorgoglisce.
Ho intenzione di contattare anche qualche giornalista cui raccontare la storia di questo eroe senza medaglia.
Tra un passo e l’altro avverto dei vuoti sotto il pavimento, cerco di prestarvi attenzione, do qualche colpetto al legno, ascolto il rumore diverso che fanno le assi e ne ho la conferma. Comincio a tastare il pavimento carponi, cerco di capire meglio, quando la pressione più decisa in un punto rivela un’asse libera dall’inchiodatura. Provo a tirarla via, ma si solleva un pannello intero di circa un metro per un metro. Una scaletta porta a un piano interrato del quale non sapevo nulla, del quale mio padre non mi ha mai parlato.
Immagino sia il ricovero dove mio nonno nascondeva i fuggitivi, o dove teneva i viveri per sfamarli.
Recupero una torcia e scendo giù, non è profonda, diedi gradini appena. Intravedo quattro bauli abbastanza grandi, ne sono sorpreso.
Che sia il tesoro del quale ridevamo con mia madre?
Le serrature sono arrugginite e devo tornare su a prendere qualche attrezzo; in casa non mancano pinze e cacciaviti.
Devo smanettare un po’ per riuscire ad aprire il primo, e questo mi dà la conferma che nemmeno mio padre ci ha mai messo mani. Lui è stato qui fino all’estate scorsa poi, di notte un infarto e se n’è andato, da solo, ma di certo felice di potere riabbracciare suo padre.
Risalgo come inseguito da mille demoni, arraffo tutto ciò che avevo a mala pena sistemato per la mia permanenza durante i lavori. Afferro le chiavi della macchina, ingrano la marcia e scappo via, giù verso la città.
Sudo, tremo, provo conati di vomito e fatico a trattenere ciò che ho mangiato stamane, ma anche ieri e l’altro ieri. Vorrei vomitare l’anima, se fosse possibile. Mi fermo, accosto al guardrail, da qui il paese sembra minuscolo, mentre il mio disgusto è smisurato.
Vi avessi trovato cadaveri, dento quei bauli, sarei stato felice; avrei immaginato degne sepolture per i poveri disgraziati morti nonostante l’aiuto di mio nonno. Ma ciò che ho trovato è aberrante, e non ha giustificazione.
Vorrei strapparmi dal volto il sorriso che mi dicono essere identico al suo, vorrei poter cancellare il cognome che ho, e l’idea che mio figlio porti in giro per il mondo il suo stesso nome mi fa ribrezzo.
Li ho aperti tutti e lì per lì sono rimasto abbagliato: candelieri d’argento, anelli di smeraldi, zaffiri, rubini, gioielli d’ogni tipo, vassoi d’argento, quadri, armi…, perfino un ostensorio, forse appartenuto alla vecchia cattedrale tanto stupefacente la cesellatura. I bauli sigillati hanno mantenuto il tesoro intatto. Mi sembrava di essere davanti alla refurtiva che si vede nel film dei pirati.
Il valore: incalcolabile.
Ogni singolo oggetto aveva un cartellino attaccato.
Ho letto e rabbrividito.
Ho creduto di non aver compreso. Ho riletto il primo cartellino, poi il secondo, il terzo… Mi sono accasciato sul pavimento scioccato.
Mentre lo stomaco cominciava già le sue contrazioni e nel petto cresceva l’affanno ho voluto ancora leggere per essere certo, ho preso un candeliere e sul cartellino ho letto: 2 ottobre 1943 notaio Li Manni con la figlia, la piccola Marilena, candeliere d’argento a cinque braccia in cambio di tre giorni di rifugio senza cene. In quello attaccato a un anello, invece c’era scritto: 7 luglio 1943 Principi Gualtiero e Mafalda Trupìa; anello con smeraldo in cambio di due notti di rifugio e una sola cena, due uova e una fetta di pane nero. In un altro ancora: 12 febbraio 1944 Padre Gesualdo, ostensorio della Matrice in cambio di tre fette di pane nero.
Ho percepito la dannazione afferrarmi la gola, se fossi rimasto ancora un minuto sarei morto soffocato, o forse è accaduto davvero perché, nonostante sia riuscito a fuggire, posso affermare senza alcun dubbio che: Vincenzo Di Fazio, il fiero nipote dell’eroe, è morto stanotte.
Biografia:
Mi chiamo Adelaide e vivo a Palermo dal 15 agosto del 1961, giorno in cui sono nata. Quinta di cinque femmine, in casa non sono mai mancate fantasia prolifica e creatività pratica. Ho avuto la fortuna di giocare tantissimo con le mie sorelle e i bambini del vicinato nel giardino dietro casa. La passione per la scrittura, però, era già nel mio DNA; il mio bisnonno scriveva commedie popolari e poesie, una delle mie sorelle componeva canzoncine per le recite della scuola e mio nipote, agli esami di terza media, ha scritto un compito di italiano lungo tredici pagine senza andare fuori tema. Bene, ho presentato tutta la famiglia e così si è capito che alle radici ci tengo. Ahimè, ho sposato un milanese che si lamenta sempre dell’inefficienza della mia città, ma nonostante ciò, dopo trentatré anni di vita insieme, mi va ancora a genio. Pur avendo conseguito il diploma di figurinista (dopo avere abbandonato il liceo classico), scrivere è sempre stata la mia vera passione; la coltivo da decenni con impegno, dedizione e studio costante. Grazie a ciò, alle pareti di casa ho appeso qualche riconoscimento, l’ultimo l’ho ricevuto al concorso Paolo D’Amato per la mia prima opera letteraria, una raccolta di racconti dal titolo Donne fino a epoca contraria pubblicato da L’Erudita. Tantissimi, inoltre, sono i racconti pubblicati da diverse Case Editrici nelle antologie AA.VV. Frequento con piacere i blog e i forum letterari che trovo stimolanti per la creatività, utili per lo scambio di informazioni e indispensabili per un confronto quotidiano finalizzato a migliorami. Spinta da una passione irrefrenabile per la lettura, non da critico letterario ma da lettrice pura, scrivo recensioni per il blog VCUC. Tra gennaio e febbraio è prevista l’uscita del mio primo romanzo.
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Racconto preferito
Bella e tragica
Bella e tragica. Così fu l'ultima notte della mia vita. Dopo, nulla sarebbe stato più uguale.
Se torno a quel momento sento ancora il dolce e delicato profumo di zagare e il cri cri dei grilli nel prato; il cielo, sopra di noi, una cupola scura punteggiata da mille lucette.
«Quello è il Piccolo Carro e quella al suo estremo è la Stella Polare. Vedi quanto è luminosa?»
Hai alzato una mano tremante, disegnando nell'aria la sua forma. Eri così fragile, eterea quasi. Mi si è stretto il cuore. Ricordo di aver annuito, ringraziando l'oscurità che celava il gelo che possedeva il mio animo; una disperazione che mi devastava dal terribile momento in cui avevamo aperto quel maledetto referto.
«Quanto tempo?» hai chiesto al dottore con voce incerta, da bambina. Lui non ha risposto subito. Ha continuato a fissare la cartella clinica che aveva in mano, scuotendo la testa. Ho accennato una carezza, ma ti sei scostata bruscamente, evitando il contatto.
«Le resta poco più di un mese di vita» ha risposto lui infine, l’imbarazzo nascosto dietro a un colpo di tosse. Le sue parole sono rimaste sospese in un silenzio irreale per un lungo, terribile istante, poi le nostre mani si sono cercate, come in cerca di sostegno reciproco. Ho sentito le tue unghie conficcarsi nella mia pelle e il respiro farsi corto; ti ho cercata con lo sguardo e ho incontrato i tuoi occhi dilatati, il terrore stampato sul viso. Ti sei raggomitolata sulla sedia, i capelli sul viso a nascondere l'angoscia.
«Andiamo via» hai detto, la voce affannata come dopo una corsa.
«Ma...»
«Portami via di qua.»
Me lo hai gridato con tutto il fiato che avevi in corpo, tremando e singhiozzando.
Siamo fuggiti, correndo a perdifiato lungo corridoi asettici e freddi. Quello che mi resta di quella fuga è una sequela di volti stupiti, e, tra questi, quello di una persona che ci ha fissato con aria di rimprovero.
«Diamine, siamo in un ospedale» ci ha gridato dietro. «Il rispetto, i giovani d’oggi non sanno più cosa sia.»
Mi sono fermato all’istante e se tu non mi avessi strattonato un braccio sarei tornato indietro e lo avrei picchiato fino a trasformare la sua faccia perbene in una poltiglia irriconoscibile.
Mi hai fissata, il viso pallido come un cencio.
«Credimi, non ne vale la pena.»
Ho ricacciato indietro il groppo che mi serrava la gola e mi sono sforzato di guardarti negli occhi.
«Cosa facciamo ora?»
«Portami alla casetta sul lago.»
I giorni sono volati via in un battibaleno. Ogni mattina ti ho vista più debole; è stato straziante vedere la malattia che devastava il tuo corpo, non lasciandoti un attimo di tregua.
Allungati su un plaid, avvolti dal blu intenso della notte, gli occhi incollati alla volta celeste, hai continuato: «Sai che siamo fatti di polvere di stelle?»
«Ah sì?»
«Sì, noi siamo fatti della materia di cui è fatto l’Universo, nel nostro DNA si nascondono gli stessi atomi che costituiscono le stelle.»
Hai appoggiato la testa sulla mia spalla e hai sospirato, lo sguardo sognante perso dietro a chissà quali pensieri.
«Mi aiuterai a tornare lassù?» hai detto in un sussurro.
«Co-cosa?»
«Nulla. Stringimi, amore mio.»
Ti ho accolta tra le braccia, sperando di aver travisato le tue parole. Ti ho sentita indifesa, un uccellino implume caduto dal nido. Mi hai baciato, un bacio tenero, a fior di labbra. Poi abbiamo fatto l’amore sotto la luna ed è stato magico, quasi irreale. Ancora oggi mi chiedo se non l’ho sognato, se le carezze e i gemiti e le lacrime e le risate non sono state che proiezioni della mia mente.
«Stasera tutto è perfetto mi hai detto. La luna, le stelle, noi… è il momento giusto.»
Ho cominciato a scuotere la testa in un diniego disperato. Non avevo voce, parole, pensieri. Solo quel no muto.
«L’attesa è troppo difficile, mi corrode dentro. Non ce la faccio più. Voglio tornare a brillare lassù, così che, quando alzerai gli occhi al cielo, tu possa riconoscermi e sapere che sono io.»
Non hai atteso la mia risposta. Sapevi che, se me ne avessi dato l’opportunità, avrei protestato, cercando di farti cambiare idea. Ti sei alzata, facendomi cenno di restare seduto.
«Adesso, ti chiedo una sola cosa.»
Avrei voluto tapparmi le orecchie, trascinandoti di nuovo sul plaid, ma non ho potuto. Eri così seria, così determinata che non ho osato farlo. L’ho rimpianto, sai. Avrei potuto fermarti, o forse solo tentare di farlo. Me ne rammarico ancora.
«Ti prego, non fermarmi, qualsiasi cosa accada.»
«Tesoro…»
«No, non farlo. Lasciami libera. Dimmi che lo farai, per me… per noi.»
Ho annuito tra le lacrime, devastato nell’animo, incapace di oppormi, una volta di più.
Un ultimo sguardo, un’ultima carezza e ti sei allontanata, senza una parola. Ti ho seguita con gli occhi, artigliando l’erba con le dita. Quando sei scomparsa dalla mia vista ho realizzato che non potevo perderti, che il dolore dell’abbandono era più forte di qualsiasi promessa fatta. Ho scalato la piccola duna dietro la quale eri scomparsa, ma eri già con i piedi nell’acqua.
Ho gridato il tuo nome, ma non ti sei voltata. Hai continuato ad avanzare nell’acqua, sempre più lontana. Ho corso a perdifiato, senza riuscire a raggiungerti. Con i piedi già nell’acqua, mi sono fermato, vedendo che ti giravi. Speravo in un tuo ripensamento, invece hai messo un dito sulla bocca, intimandomi il silenzio; poi lo hai alzato verso il cielo e sei sparita nel lago.
Ce l’ho con l’autrice di questo racconto: avrei voluto che fosse clemente e decidesse di dare un lieto fine alla nostra storia, ma non c’è stato verso. E’ sua profonda convinzione che ciascuno abbia il diritto di disporre della propria vita e di morire con dignità, liberandosi dalla sofferenza. Il dibattito sull’eutanasia è lungo, tortuoso, pieno di pietre d’inciampo, per cui sarebbe opportuna una riflessione e una risoluzione decisiva a riguardo.
Bei racconti :D
RispondiEliminavero, racconti bellissimi, tutti quanti.
EliminaGrazie per aver scelto il mio racconto. Tema difficile da trattare: ho scelto la strada della tenerezza, avvicinandomi ai protagonisti in punta di piedi, tra cielo e terra. :-)
RispondiEliminaMi è piaciuto tantissimo e ho apprezzato come hai impostato la storia.
EliminaTutti belli i racconti, è stata dura scegliere. Anche il racconto d Anna Maria meritava ^_^
RispondiEliminaIo mi ero segnata due racconti che mi erano piaciuti da morire, ma li avete fatti arrivare primo e secondo xD. A parte gli scherzi, veramente tutti bellissimi.
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