La scatola di latta Kim Fielding (Anteprima)



Trama:
Il passato di William Lyon gli ha impedito di essere se stesso. Combattuto e stanco di mantenere le apparenze, si separa dalla moglie e accetta un lavoro come custode di una struttura che è stata il più grande ospedale psichiatrico della California. Il vecchio manicomio, vuoto e abbandonato, gli sembra il luogo adatto in cui rifugiarsi per terminare la tesi di laurea in attesa che il divorzio diventi definitivo. Nella piccola città di Jelley’s Valley, William incontra Colby Anderson, che manda avanti la bottega del paese con annesso ufficio postale. Al contrario di William, Colby è adorabile, ottimista e vistoso, e non si preoccupa di nascondere il proprio orientamento sessuale. Anche se all’inizio il carattere aperto di Colby lo mette a disagio, con il tempo William impara ad apprezzare la loro amicizia e accetta persino la proposta di Colby di introdurlo al mondo del sesso gay.

L’idea che William si è fatto di sé inizia a cambiare quando scopre una scatola di latta nascosta da decenni nelle mura del manicomio. All’interno, sono custodite le lettere scritte in segreto da Bill, un paziente che era stato internato a causa della sua omosessualità. William si rispecchia in quelle pagine e comincia ad appassionarsi alla storia dell’uomo che le ha scritte e al suo destino. Con l’aiuto di Colby, spera che le parole scritte settant’anni prima gli diano il coraggio di essere finalmente se stesso.

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Salve a tutti, eccomi qui con un'altra recensione.
Una recensione molto molto difficile da scrivere. Dal momento in cui ho visto che sarebbe uscito questo libro, l’ho veramente atteso con tanta ansia; conosco l’autrice, ho letto altri suoi lavori e l’ho inserita nella mia personale top five degli autori MM che leggo. Kin Fielding è un’artista molto complessa; al contrario di altri autori, dove i loro personaggi sono dei modelli appena usciti da una rivista patinata, sono anche lucidati, quelli della Fielding sono pieni di difetti, e non solo fisici o caratteriali, ma in determinati casi possono essere quelli che la società definisce scarti. Già, questa bravissima autrice, almeno nei libri che ho letto io, ha dei protagonisti particolari, complessi, pieni di problemi soprattutto di stima, di inserimento nella società e di accettazione.
Tutti elementi che troviamo in questo romanzo che uscirà il 19 di febbraio per la Dreamspinner Press.
Prima di addentrarmi nella recensione vera e propria, prima di parlarvi di William e Colby, di quelli che sono i loro problemi, ma anche la loro storia, o accennarvi di Bill, quella figura che conosciamo solo attraverso le sue strazianti lettere, una testimonianza di un tempo lontano, di momenti drammatici, di quanto l’uomo fosse arretrato mentalmente, ma soprattutto di quanto l’uomo, i nostri simili, fossero in grado di essere sadici tanto da umiliare e ferire i loro simili, quelli malati veramente, ma anche i presunti malati, anche se consideravano l’omosessualità una malattia mentale che andava curata, voglio fare una piccola digressione, sulla parte che mi ha scioccato di più, che mi ha fatto versare mari di lacrime, ma soprattutto quella parte che ho fatto fatica a leggere per tutta la disperazione che vi avvertivo.


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Farò un giro molto lungo, senza entrare troppo nei particolari, o in ambiti che non sono proprio i miei.
Prima degli Europei, prima che arrivassero gli Spagnoli, i Nativi Americani avevano diverse coppie dello stesso sesso, in diverse tribù ed erano accettate; ogni tribù aveva dato loro un nome, ma tradotto in inglese, si conoscono come Two Spirits, le persone con due anime, con due spiriti, sia quello femminile che quello maschile, come se fossero esseri completi. I Due Spiriti, prima che i nativi venissero in contatto con gli europei, erano addirittura venerati e le famiglie in cui nascevano erano considerate fortunate. A questo link potete trovare un articolo molto interessante a riguardo.
Perché ho iniziato da così lontano? Semplice, perché per quanto le discriminazioni verso gli omosessuali ci siano state e ci sono in tutto il mondo, in questa recensione parlerò di cosa accadeva negli Stati Uniti d’America.
Come ho detto i Nativi erano molto aperti di pensiero: loro non consideravano le persone in base alla loro mascolinità o femminilità, come vestivano o con chi preferivano coricarsi la sera, ma in base all’utilità e al contributo che portavano all’intera tribù.
Con il loro arrivo, gli Europei, però, cercarono in tutti i modi di distruggere questa parte della cultura dei Nativi, dando inizio in questo modo a una serie di pregiudizi, di persecuzioni verso tutti coloro che erano differenti, fino a considerare l’omosessualità un reato, ma soprattutto una malattia mentale.

Le leggi in America sulla sodomia e determinati atti sessuali sono state ereditate dal paese da una serie di leggi britanniche con radici nella religione cristiana della tarda antichità.
Negli anni, a partire dal 1779, Thomas Jefferson e molti come lui hanno provato a far passare delle leggi per proteggere i cosiddetti sodomiti, ma con scarsi risultati.
Fino a prima del 1962 la sodomia costituiva un crimine in tutti gli stati dell’Unione, punito con la reclusione, con lunghe pene detentive o i lavori forzati. In molti però non sanno che molte volte coloro che venivano accusati di sodomia, non venivano mandati in prigione, ma rinchiusi in veri e propri manicomi perché dagli anni ’30 veniva considerato un vero e proprio disturbo psicopatico della personalità. In seguito, negli anni ’50 viene designata come un disturbo antisociale di personalità in quanto l'omosessualità era una sottocategoria delle deviazioni sessuali.
Nei primi anni del secolo scorso coloro che venivano rinchiusi in manicomio per devianza sessuale venivano sottoposti a trattamenti a livelli quasi disumani, come anche tutti gli altri pazienti delle strutture per malati mentali. Tutti loro erano considerati alla stregua di cavie o bestie, piuttosto che persone sane messe lì ingiustamente o malati bisognosi di particolari attenzioni.
Le cure sottoposte ai vari pazienti, come agli uomini e donne omosessuali erano dei veri e propri abusi, procedimenti sadici più che delle cure. Procedimenti che molte volte facevano peggiorare i pazienti, portandoli veramente a non essere più in grado di occuparsi di loro stessi o alla morte.
Ho fatto una ricerca in Internet, ma è difficile trovare documenti approfonditi o siti Internet che parlano di quanto accaduto, ci sono solo accenni vaghi. Dovrei provare a cercare in inglese, ma non voglio trasformare questa recensione in un saggio; volevo solo fare questa piccola parentesi visto che nel libro che mi accingo a recensire ha affrontato argomenti importanti, che mi hanno lasciato senza parole e in un mare di lacrime.


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Dopo la mia solita digressione, eccomi qui a parlare del libro. So che ad alcuni di voi potrebbero annoiare, ma credo che per leggere un libro e poi parlarne ad altri bisogna anche informarsi di quello che si è letto, ma soprattutto ho voluto parlarne perché questo libro, oltre ad avermi colpito tantissimo, mi ha fatto versare mari di lacrime. Posso essere troppo sensibile, ma quanto ho letto mi ha fatto piangere tantissimo.

Il libro si svolge su due piano narrativi: il presente, con il protagonista che in fase di divorzio, con il futuro del tutto incerto davanti a lui e la decisone di andare a lavorare come custode in un vecchio manicomio abbandonato per finire la tesi di laurea, mettere da parte un po’ di soldi, ma soprattutto capire cosa ne sarà di lui e del suo futuro, e il passato, dove si scopre attraverso una serie di lettere che il protagonista trova all’interno della struttura; a scriverle è un paziente della struttura, rinchiuso lì perché omosessuale. Bill, il nome del paziente, scrive al suo amante, a quel ragazzo che gli ha rubato il cuore; gli scrive lettere che non dovrebbe, che l’altro mai leggerà perché sicuramente nessuno le spedirà per lui raccontando la sua vita all’interno della struttura, di giorni tutti uguali, dove gli sembra di essere tornato un bambino inizialmente, perché non può prendere decisioni, gli altri le prendono per lui: cosa mangiare, come vestirsi, dove dormire, quando lavarsi e le cure, quelle cure che dovrebbero farlo tornare “normale”, ma che non sortiscono nessun effetto, perché i sentimenti per il suo amante rimangono immutati anno dopo anno.
Attraverso queste lettere si legge la disperazione, il vuoto, la paura, ma anche tutto l’amore che Bill prova per il suo compagno, con la speranza che miracolosamente si presenti a salvarlo. Che con il tempo lui possa uscire dalla struttura e che loro due possano incontrarsi di nuovo.
Le lettere di Bill però man mano si fanno sempre più rade, una ogni troppi mesi, anni in alcuni casi, perché non può scrivere, ma soprattutto perché i trattamenti che gli infliggono lo portano a soffrire a non riuscire a pensare, a non potersi muovere, fino a quando non si interrompono per sempre.
Quando le lettere terminano, William, il protagonista de La scatola di latta, si sente vuoto, per un verso molto vicino a Bill, con cui condivide il nome, ma non è solo quello: vuole sapere cosa ne è stato di quell’uomo che tanto ha sofferto.
Qui mi fermo con questa sorta di riassunto per parlarvi veramente del libro: se non vi avessi detto cosa accade a grandi linee, non avreste potuto capire i sentimenti che il libro suscita. La malinconia, il dolore, tutto trapela, pagina dopo pagina, lasciando senza fiato il lettore, o almeno a me ha lasciato senza fiato, con le lacrime che scendevano e desiderosa di scoprire cosa accadeva, sia a William, le decisioni che avrebbe preso per il suo futuro, ma soprattutto volevo sapere cosa ne era stato di Bill, con la speranza che ci fosse stato un qualche lieto fine per lui.

Quello che ho avuto tra le mani in questi giorni non è il classico romance: mi sarei aspettata di tutto, però mi ha veramente stupito, lasciandomi basita, svuotata, disperata per tanti motivi. Del tutto incapace di comprendere come mai le persone da sempre hanno paura di ciò che è diverso, di quello che non comprendono. Ma soprattutto sono rimasta sconcertata e addolorata dalla descrizione della vita nei manicomi, perché le parole della Fielding, quello che ha fatto raccontare a Bill, magari in questo caso sono inventate, ma è quanto accadeva veramente. I pazienti erano trattati come delle bestie, usati come cavie, mentre i cosiddetti medici li torturavano, facevano loro del mare, sperimentavano e poi, quando si erano rotti veramente, li gettavano via. Tutto con il benestare delle famiglie, che li abbandonava in quei luoghi, forse pensando veramente che per alcuni fosse il loro bene: ma gli occhi dove li avevano?
Evito sempre di leggere libri di questo genere, con abusi, distopici che si avvicinano sin troppo alla realtà perché scatenano in me diverse reazioni, disperazione e rabbia. Sono libri che mi fanno arrabbiare, non in quanto libri, ma per le storie che raccontano, perché sono vere, perché sono accadute, accadono anche ora e probabilmente anche in futuro.
E la Fielding è stata bravissima, perché ho terminato il romanzo da due giorni e ci sto ancora male; rivedo le descrizioni del manicomio, sia nel periodo in cui è abbandonato, ma anche quando lì a viverci c’era Bill; sento i mormorii dei pazienti, le urla, i pianti e la disperazione di ognuno di loro. Immagino queste persone ormai irrimediabilmente perse, usate come cavie, chiuse in se stesse alla stregua di vegetali, che attendono l’arrivo della fine. E immaginandole mi chiedo se almeno, anche se non comunicano più con il mondo, all’interno della loro mente ci sia qualche pensiero, qualche momento felice al quale aggrapparsi. Oppure, oltre a essere inermi, ciò che scorre davanti ai loro occhi è il tempo mentre fissano le mura di una struttura dove non sarebbero mai dovuti stare.



Il libro è stupendo, ma credo che la finirò qui con la recensione; probabilmente non è nemmeno una vera e propria recensione, ma consiglio di leggerlo, preparandosi psicologicamente a versare tante lacrime, con una scorta di fazzoletti accanto e soprattutto prepararsi a non dormire, perché vi terrà incollati fino a che non lo avete terminato.



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